San Vito a Pisa al tempo dell'arsenale
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San Vito a Pisa al tempo dell'arsenale

San Vito fu un giovane siciliano, martire in Lucania nel IV secolo sotto Diocleziano.
Nel medioevo ebbe un culto straordinario, diffuso in tutta Europa.
Dà il titolo alla cattedrale di Praga in Boemia.
La sua festa cade il 15 giugno, al termine della primavera, forse a richiamare la sua giovane età e la matura testimonianza della fede.
In diverse città e luoghi è l’occasione per celebrarlo con processioni, anche di bambini, e con ghirlande di fiori di stagione appese ovunque.
San Vito inoltre è considerato il patrono dei muti, dei sordi, dei ballerini, degli epilettici, degli ammalati di còrea (ballo di San Vito), dei calderai, dei ramai e dei bottai per il grande calderone in cui fu immerso.
È invocato pure contro il morso dei cani perché ne guarì uno o due rabbiosi mandatigli contro da Diocleziano.
In Toscana porta il suo nome una chiesa di Firenze, un sobborgo di Lucca, una chiesa scomparsa di Calci e, nell’ambito che ci interessa, un edificio di culto che fu parrocchia di Pisa.
In essa abitarono nel medioevo modesti e significativi artigiani, solo in parte da correlare ai mestieri di cui fu patrono: un certo Ugolino di Giovanni tintore (1257), un Anselmo vinaio e un Enrico barbiere (1314), un Ristoruccio vinaio (1322), la famiglia Scacceri (tra 1330 e 1348), Gaspero bottaio (1411), e Giorgio Cecchi bicchieraio (1432 e 1434) ... per citarne alcuni.
Ebbero sede nella parrocchia anche degli edifici particolari tra i quali segnaliamo una casa con torre, una seconda casa al “canto di San Vito” (1288) e una terza casa murata e solaiata senza precisa ubicazione (1294).
Soprattutto la chiesa ebbe accanto un monastero che fu prima di benedettini (qui San Ranieri Scacceri morì nel 1160) e poi di clarisse, trasferite nel 1552 in San Lorenzo alla Rivolta per far spazio agli arsenali medicei.
Proprio l’ingombrante presenza dei cantieri ne determinò l’irreversibile declino.
Se ne ricorda l’inizio in una carta del 1571, riguardante le parrocchie pisane e la povertà delle popolazioni che non potevano più mantenere in modo dignitoso le loro istituzioni religiose.
Il 9 luglio si legge infatti questa premessa: “Considerando il reverendissimo monsignore arcivescovo di Cesarea [Antonio Lorenzini, † 1775], suffraganeo vicario et luogotenente generale dell’illustrissimo e reverendissimo cardinale Montepulciano degnissimo arcivescovo di Pisa [Giovanni Ricci, 1567-1574], quanto sia necessario per la gran povertà, e tenui frutti parimente et gran numero delle parrocchie che sono in Pisa, redurre dette parrocchie a minor numero ...”.
E si aggiunge, per contrario, la presa d’atto della non fattibilità della cosa, almeno in senso stretto e per quei tempi.
Ma ci potevano essere delle scappatoie ... Il Concilio di Trento infatti aveva proibito “che li benefitii curati non si possino fare et redurre semplici.
Però con participatione del serenissimo granduca di Toscana, primo gran maestro et fundatore della prefata illustre religione di San Stefano, il detto monsignore suffraganeo, lasciando ciascheduna chiesa nel suo stato, et a ciascheduno la sua iurisditione, et ragione, primieramente dichiara, et dice che nella infrascritta provisione intende solamente trasferir la cura di una o più chiese all’altra”.
Insomma fatta la legge ... trovata la ‘soluzione’, con il consenso dei Medici, casata contro la quale nessuno avrebbe potuto mettersi di traverso in quanto ricchissima e generosa quando lo riteneva opportuno, ma potente e vendicativa ... per la stessa ragione.



Le parrocchie pisane pertanto restarono integre per il momento ... eccetto quella di San Vito, per motivi pratici, primo dei quali l’isolamento necessario a una struttura di importanza per lo stato come gli arsenali.
O per dirla con Lorenzini: “ ... quale per esser povera et situata dentro, et nel chiuso dell’arsenale della galere di sua altezza, onde non può il curatore d’ogni tempo di dì, et di notte intrar dentro l’arsenale et in detta chiesa, per le necessarie occorrenzie per la cura dell’anime, però si unirà perpetuamente detta chiesa et cura alla cura et chiesa di Santa Lucia, ivi vicina ... L’unione non fu senza spesa.
Il rettore della cura di San Vito fu tenuto a dare sei sacca di grano al rettore della cura di Santa Lucia per l’opera prestata.
Ma, essendo ambedue le chiese povere, anche l’opera e gli operai corrisposero annualmente sei sacca di grano al rettore di Santa Lucia.
In più il rettore della cappella di San Matteo esistente in San Vito, fu obbligato a pagare tre lire sempre al curato di Santa Lucia.
Anche la confraternita di San Vito si dovette adattare alle mutate contingenze.
Ora si sarebbe radunata in Santa Lucia “o dove più li piacerà”, facendo le solite devozioni e accompagnando con il baldacchino, come d’uso, il SS. Sacramento quando sarebbe stato portato in processione fuori di chiesa o agli infermi.
Avrebbe inoltre “servito di baldacchino” anche la parrocchia di San Nicola e i suoi frati.
Fin qui arriva lo scritto di Lorenzini che non poteva certo prevedere come il tempo avrebbe governato la faccenda e la diocesi.
Per San Vito la perdita della funzione parrocchiale ne ridimensionò l’importanza.
Tuttavia la chiesa, essendo di città e sul Lungarno, scampò da quella sorte che in campagna, ad esempio, vide edifici sacri rovinati, impossibili da restaurare per mancanza di denaro, spianati al suolo e indicati solo da una croce in cima a una colonna.
Allora intatti non si usava “conservare” i monumenti e le pietre dei muri cadenti erano riutilizzate per costruirne altri necessari agli abitanti.
San Vito riuscì a giungere al 1796 quando fu demolita e rifatta di minori dimensioni per allargare il Lungarno; poi, nella Seconda Guerra Mondiale, rimase distrutta e fu ricostruita.
Oggi sopravvive, ma chiusa e trascurata, a quanto si può vedere passandovi accanto.
Di Santa Lucia (detta dei Ricucchi), nominata nella carta di Lorenzini, invece non è rimasta pietra visibile.
Bruno Casini la indicò dietro il palazzo dell’Enel (che guarda il ponte Solferino).
Altri documenti la mostrano nel 1268 a confine con la via Nuova di Paludozzari che andava dall’Arno alla cattedrale e che conservò il nome e pressappoco il percorso i tempi successivi.
Oggi il tratto che nasce in via Santa Maria è detto via Trento e quello che da via Roma va a via Nicola Pisano via Trieste.




Paola Ircani Menichini, 11 settembre 2020.
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Le foto: il documento del Lorenzini e il particolare della via Nuova in una carta di Pisa del 1793.