Curiose notizie su un ospizio pisano del medioevo
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Curiose notizie su un ospizio pisano del medioevo



L’ospedale dei Santi Martino e Frediano di Pisa fu, come usava nel medioevo, un alloggio per forestieri poveri e pellegrini e, al pari di altri, solo “secondariamente d’assistenza agli infermi” (definizione di A. Barbero).
Anch’esso dovette svilupparsi accanto a una frequentata via di comunicazione questa volta situata nella parte settentrionale della città.
I primi documenti che riguardano l’ospedale risalgono agli anni ‘60 del secolo XI.
Ebbe allora un risoluto custode: prete Leone di Gualfredo, che sul possesso di alcuni beni il 7 maggio 1063 rinnovò un ricorso presentato alla corte del duca e marchese di Toscana.
A questa data Goffredo – il coniuge di Beatrice (per lei in seconde nozze) e il patrigno di Matilde di Canossa – promosse un giudicato nel quale furono presenti oltre a lui, Guido vescovo di Pisa, Ugo Visconti e diversi giudici imperiali.
Questo perché prete Leone e Pietro suo avvocato si erano mossi contro il giudice Guido del fu Eustachio, mai presentatosi.
Costui teneva tre parti di alcune terre e case presso la chiesa di San Martino e l’ospedale, donate da Bonizzo di Bonizzo, altro giudice.
Grazie al giudicato, prete Leone ottenne la terza parte spettante all’ospedale almeno fino a quando Guido non avesse fatto la sua comparsa e querela.

Da osservare nell’atto la firma incerta se non tremolante del rappresentante di una importante famiglia del tempo: Ugo Visconti.

Prete Leone rimase custode dell’ospizio per molti anni.
Il 3 marzo 1084, pensiamo, giunto in vecchiaia, donò all’eremo di San Salvadore di Camaldoli i beni pervenuti da Fralmo detto Rustico del fu Gherardo, dalla moglie Imilia del fu Rodilando e da Donico del fu Albizo situati dove era l’ospizio e la chiesa dei Santi Martino e Frediano.
Questo perché i camaldolesi ne avevano ottenuto il patronato.
Rodilando appare titolare di un nome considerato “lucchese”.
Anche l’ospedale fu battezzato con due santi ugualmente ‘lucchesi’: Martino e Frediano.



Altre carte riservano qualche curiosità sull’ospizio.
I camaldolesi se ne occuparono tranquillamente per un centinaio di anni fino a quando ne fu usurpato il possesso con un colpo di mano.
Si legge così nel 1185 in un atto scritto in seguito al ricorso dell’abate Placido contenente testimonianze di monaci, preti e laici.
I camaldolesi infatti vi avevano nominato ospedaliere tale Martino dei Tocchi o dei Cocchi, ma la famiglia degli Assoni – cioè Ugo Erri, Bonaccorso del fu Ugo Grassi, Gualandello di Maccio, Crivellario e Bernardino – avanzando la pretesa di un loro patronato, avevano rubato le chiavi e espulso Martino con male parole.
Come andò a finire non è scritto, ma le testimonianze a favore dei camaldolesi e dello ospedaliere furono così tante e tali che di certo si ripresero l’istituzione.
La carta è ben leggibile e interessante. Meriterebbe anzi uno studio a sé.
L’ultima parte presenta l’elegante segno del notaio Pantaleo.

Un’ultima pergamena sempre dell’ospedale riguarda l’urbanistica della parte occidentale della città.
Si tratta di un arbitrato dei giudici pubblici Baldovino e Bonagente, datato le XV calende di maggio, cioè il 17 aprile 1206.
“Notitia facemus ...” i giudici fanno scrivere, informando come un gruppo di persone – prete Tedisco della chiesa di Sant’Ilario, in nome della stessa chiesa, Ugo Bocconario, per sé e per Balduvinasco suo nipote, Roberto Vulpuli e Pecciarello – affermi che Pietro ospedaliere dell’ospedale di San Frediano “imbrigasse sepe et fovea viam quam itur ad Leccios”, cioè ‘stesse imbrogliando’ la via che andava ai Lecci nella siepe e nella fossa.
[I Lecci era il nome di una zona e di una porta che si apriva nelle mura occidentali oggi inglobata nella Cittadella Galileiana, ex Macelli].
E, dopo aver dato la notizia, le stesse autorità ricordavano l’inchiesta relativa e il proposito di liberare e ridurre la stessa via a conveniente forma.
Annotavano anche che l’ospedaliere interrogato si era difeso dicendo che non aveva “imbrigato” la via.
Comunque, per non sbagliare, “publici utilitate previdentes” – previdenti circa la pubblica utilità –, accertato che alla fin dei conti non c’era alcun dissenso di chicchessia, ordinarono “in(de) oriatur ipsam viam”, che si iniziasse la via.
E, dandole forma ‘conveniente’, fecero scrivere che dal capo di occidente fosse “elevata misura a cantone” di dominus Riccio di Buscia come va la linea del muro della casa dei suddetti Baldovinaschi verso la terra del suddetto ospedale e “sit dicta via pedes decem et novem” (sia la detta via 19 piedi, poco più di cinque metri e mezzo) e qui sia posto il termine e da questo termine vada la detta via a linea retta al cantone della casa del suddetto ospedale “qui est ex parte occidentis et meridiei”.
E ciò che era fuori dalla linea verso la via fosse rimosso e non vi sussistesse più.
‘Terminata’ la via, ovvero definita con i segni di confine, procedettero con la lettura in pubblico della carta “extra muros pisane civitatis ibi prope an(te) cellarium supradicti Ruberti Vulpuli prope ecclesiam Sancte Agnetis” – fuori del mura della città di Pisa lì poco discosto davanti al celliere (la cantina di vino) di Roberto Volpoli presso la chiesa di Santa Agnese.
Presenti Massese Tempanelli, Iacobo figlio del suddetto Riccio “Buscie”, Marignano Erri, Tamfo e altri testimoni.
In fondo il notaio Cascianese appose il suo bel segno.
I luoghi e la vicenda ricordati conservano ancora oggi il loro fascino, forse perché scomparsi o trasformati.
Della chiesa di Santa Agnese è rimasto solo il nome di una torre, posteriore al manoscritto, situata proprio presso quella parte delle mura cittadine.



Paola Ircani Menichini, 30 ottobre 2020.
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