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Müller in Toscana

Ricordi di viaggio di un colto musicista di Brema (1821)

“[...] Più ci si avvicina a Firenze, migliori diventano le persone, la lingua, la cultura del paese. Si vede gente vestita con garbo e non si è circondati da mendicanti e ragazzi furfanti. L’ospitalità è più conveniente. Le acque di montagna sono regolate e condotte tramite canali per l’utile irrigazione; vengono aperte nuove ingegnose strade e ponti; il cibo è ricco, lo aumenta il buon vino che è portato a Firenze con dovizia; pesche e altri frutti nobili sono coltivati artificialmente e spesso ho notato alberi di melo, che ho visto poco nell’Italia meridionale […]”.
Così annotò su Firenze e il suo distretto il musicista viaggiatore Wilhelm Christian Müller (+ 1831) in una delle Lettere agli amici tedeschi”, pubblicate ad Altona nel 1824 (1). Di lui sappiamo che era nato a Wasungen in Turingia nel 1752 ed era stato direttore musicale e cantore della scuola della cattedrale di Brema dal 1784. L’aveva lasciata nel 1817 per intraprendere il viaggio in Europa e in Italia con la figlia Elise, pianista. Era stato soprattutto a Roma, e da qui era partito per visitare i dintorni e giungere fino a Napoli. Aveva scritto agli amici un centinaio di lettere per un totale di più di mille pagine stampate. I suoi sono resoconti di itinerari particolari, di luoghi incantevoli e di visite – immancabili per un turista della cultura – a chiese, a monumenti e a ville patrizie colme di capolavori.
Oltre a ciò descrive personaggi e artisti di ogni tipo, italiani e stranieri. Ma non teme di dire che apprezza la giovialità della gente di campagna e che si meraviglia del gran numero di canaglie e di mendicanti che corrono dietro alle carrozze dei ricchi e altezzosi viaggiatori. Ovvero, di pari passo, illustra un’Italia povera e disperata, aggiungendo alcune sue opinioni che oggi possono sembrare ingenerose. Attribuisce le colpe della siuazione ai cattivi preti, alla mancanza di educazione e pure al fatto che Penisola sia così tanto percorsa dai viaggiatori. Di mentalità “positiva”, cioè razionale come poteva essere un erudito dell’Ottocento, non può (o non vuole, tutto preso dal suo viaggio culturale) conoscere nel profondo la storia di quella nazione che allora era definita solo una “espressione geografica”. Ma è ugualmente testimone di guerre risorgimentali. Nei giorni 7-9 marzo 1821, ad esempio, mentre l’esercito degli insorti napoletani è sconfitto da quello austriaco ad Antrodoco (Rieti), registra, un poco insofferente, i passaggi delle truppe che ostacolano i viaggi e aumentano l’insicurezza sulle strade.

Müller attraversò anche la Toscana, come dicevamo. Nel giugno 1821 partì da Perugia e giunse nel granducato costeggiando il lago Trasimeno. Nella prima nota descrisse il mercato della seta a Montevarchi, la locanda con l’incantevole Palmezia, giovane sposa, che preparò per lui e i compagni pane burro e caffè a colazione. Pernottò la seconda notte a San Donato in Collina a causa della pioggia e quindi scese a Firenze, dove secondo il solito, visitò chiese e musei. Ammirò i monumenti dei grandi uomini a Santa Croce e li paragonò a quelli sempre splendidi nelle chiese di Roma di Salerno dedicati a persone miserabili e vergognose. Non gli piacquero le celebrazioni del Corpus Domini (“senza edificazione”) e neppure una corsa di bighe in stile antico nella piazza di Maria Novella fatta la vigilia di San Giovanni (23 giugno).
Apprezzò invece il viaggio verso Livorno intrapreso con i compagni il 25 giugno lungo la “bellissima” strada sulla riva sinistra dell’Arno. Ricordò un’ industria locale dei cappelli di paglia, fatti con gli steli di grano, raschiati, sbiancati, divisi e intrecciati; e anche di quella delle ceramiche, modellate con l’argilla depositata dal fiume.
Passò accanto a vasti campi coltivati a grano e orzo. Considerò il fatto che quasi tutta la terra appartenesse ai proprietari delle ville situate sulle alture e come tuttavia gli affittuari-lavoratori fossero contenti, operosi e puliti; abitavano in belle case coloniche e non c’erano tra loro mendicanti. Poiché era un sostenitore del progresso sociale, approvò che fossero state istituite scuole nelle campagne e opinò che, in generale, la cultura più antica del paese si combinava bene al nuovo umanitarismo.
Una strada a saliscendi lo sorprese dopo Empoli: segnalò nella lettera l’antico San Miniato e il “greco” Montopoli, le viti e gli oliveti, l’intera fertile valle dell’Arno con le case coloniche, ancora tanti campi di grano e prati. Scrisse di un magnifico nuovo ponte sull'Era, iniziato dai francesi e portato avanti dall'attuale granduca.
Soggiornò con i compagni a Pontedera dove trovò un buon ostello. Il giorno seguente prese la strada a meridione verso Livorno: notò che passava su una diga e delle paludi prosciugate di recente e con sopra nuove costruzioni. Desideroso di apprendere e di comunicare cose sempre nuove, annotò la sorpresa sul modo di fare la mietitura:
“Qui le persone hanno il curioso uso di tagliare prima le spighe di grano con una cannuccia lunga, quindi falciare la stoppia lunga 2-3 piedi (60-90 cm circa) con l'erba alta come mangime per animali. Questo grano è magnifico, ma nella vicina Maremma, il granaio di Toscana, si dice che sia ancora più bello”.
Giunse quindi a Livorno dove dimorò diversi giorni. Come un turista dei nostri giorni, si arrampicò fino Montenero, la cui chiesa allora era “rivestita in marmo di tutti i possibili colori” e descrisse la piacevole pace e frescura del luogo. Assisté in città alla ripetizione della festa del Corpus Domini, facendo le dovute critiche all’ignoranza cattolica (“le cui origini, significato e scopo un italiano conosce a malapena”); comunque, per lui, a Livorno, la processione si svolse con più dignità di quella di Firenze.
Un altro giorno con i compagni andò a vedere il fanale sulla scogliera e ammirò l'audacia e la robustezza della torre. Contò 230 gradini che portavano alla lanterna, illuminata con 12 doppie lampade antiche e con specchi cavi così grandi, che si vedeva la luce lontano 8-10 miglia. Osservò un temporale scuro a meridione, e trovò mirabile il contrasto con il sole al tramonto sulla superficie del mare verde acqua. A settentrione dal fanale poté scorgere tre torri di marmo del vecchio porto di Pisa. Nel porto attuale di Livorno invece contò navi inglesi, greche e americane. Müller appare, descrizione dopo descrizione, un viaggiatore lieto di aver trovato una città corrispondente al suo ideale di mondo e di modernità. Né si poteva dargli torto: Livorno allora si presentava civilissima, piena di splendide dimore, fiorente e cosmopolita. Il nostro musicista ebbe ancor maggior soddisfazione quando incontrò un giovane ebreo americano figlio di un mercante “di vecchia credenza”, già conosciuto a Firenze: si chiamava Abram Philipson, era nato ad Amsterdam, aveva studiato a Filadelfia e viaggiava in Europa per curiosità. Provò soprattutto il grande piacere della conversazione. Ascoltò con interesse la vita avventurosa del giovane trascorsa tra i due continenti; discusse di religione, di cristianesimo, della Bibbia commentata dai rabbini, dell’eretico Spinoza (per gli ebrei) e anche sul commercio. Si interessò in particolare a quello dei libri, genere nel quale – scrisse – Livorno era inferiore solo a Vienna.

Pubblicato in Reality Magazine, 93, settembre 2019.

Paola Ircani Menichini, 11 ottobre 2019. Tutti i diritti riservati


(1) Wilhelm Christian Müller, Briefe an deutsche Freunde von einer Reise durch Italien, über Sachsen, Böhmen und Oestreich 1820 und 1821 geschrieben und als Skizzen zum Gemälde unserer Zeit, Altona 1824 (mia traduzione dei brani citati).