Guido Pancia di Pisa nel 1301
RICORDARE E COMPRENDERE . . . . . . home



Guido Pancia
di Pisa nel 1301


Le vicende di Guido Pancia, vissuto a Pisa ai tempi di Dante, si legano a quelle di Giovanni e di Nino Visconti, personaggio ricordato nella Divina Commedia (“Giudice Nin gentil ...”).
Siamo nella valletta dell’anti Purgatorio dove stanno le anime dei grandi principi e, dopo le manifestazioni di affetto e i chiarimenti, l’uomo chiede al Poeta di andare a trovare la figlia Giovanna affinché preghi per lui.
Pare che Dante gli fosse amico.
Di certo avrà apprezzato la sua generosità verso gli artisti e la sua vita avventurosa.
Nino, fin da bambino, infatti era stato coinvolto negli antichi rancori della nobiltà pisana.
Il padre, accusato di omicidio nell’ottobre del 1273, si era ritirato con la famiglia e il suocero Ugolino della Gherardesca in Sardegna, dove il podestà pisano aveva mandato delle truppe a catturarlo.
Riuscito a fuggire, si era rifugiato presso i conti guelfi di Santa Fiora.
Dopo di che aveva intrapreso le trattative per poter tornare in patria.
La sua proposta di pace però era stata rigettata ed era stato condannato all’esilio e alla confisca dei beni, compresi i territori sardi.
La famiglia però non si era rassegnata e si era alleata, muovendo guerra, ai guelfi pisani e delle città associate.
Giovanni aveva assediato e conquistato Montopoli nel novembre 1274.
Deceduto nel maggio 1275, aveva lasciato il comando della lega al della Gherardesca, che con la battaglia vittoriosa del fosso Rinonico del 16 luglio 1276, era stato in grado di dettare le condizioni di pace al Comune di Pisa.
Il giovane Nino quindi aveva ripreso i vastissimi possessi di famiglia e le giurisdizioni della Gallura in Sardegna le quali mantenute dal 1275 al 1298, anno della morte.
Per un certo periodo fu anche rettore e governatore del Comune di Pisa.
Guido Pancia di cui parliamo sostenne la sua famiglia e ne pagò le conseguenze.
Il 24 giugno 1274 fu esiliato a tempo indeterminato in Lombardia come sospetto guelfo e suo partigiano.
Ritornato in patria, a guerra finita e ripresi i beni, condusse di certo vita più tranquilla.
Nel primo anno del nuovo secolo lo troviamo in un manoscritto che lo ricorda assieme alla sua famiglia.


Il 23 maggio 1301 (1302 pisano), dunque, Guido Pancia del fu Pietro di Porcello abitante nella cappella di San Clemente – che allora era ubicata a nord dell’Arno nel quartiere di Mezzo – convocò a casa il notaio per rendere manifesta una sua speciale volontà.
L’uomo, che doveva essere anziano e forse preoccupato per la morte di qualche anno prima di Nino Visconti e per i disordini delle fazioni dei Bianchi e dei Neri che al presente agitavano la Toscana, desiderava provvedere con generosità alla sua famiglia.
Pensò pertanto alle donne svantaggiate di casa e per prima cosa donò del denaro e beni a Berta sua moglie, affinché potesse liberamente disporne.
Erano 275 lire, come dall’atto dotale di lei rogato un tempo da Francesco del fu Giovanni di Botro da Calcinaia, e 6 parti dei 24 carati di tre pezzi di terra, torri e case posti nella loro cappella e segnati “per capita et lata” (= per capi e lati).
Da notare è la divisione delle parti in “carati”, di fatto usati poco frequentemente nei documenti.
Da precisare è il fatto che le interessanti descrizioni delle terre e degli edifici riguardano la parte medievale della città affacciata sull’odierno Lungarno Pacinotti.
1) Il primo dei pezzi di terra aveva sopra una casa, una torre, delle pertinenze e, come confini, un capo in Arno e la via pubblica mediante, un secondo capo in una altra via pubblica, un lato nella terra e casa “Gomite argentarii” (argentiere?) e l’altro nella terra e casa di un certo Bettone e degli eredi e figli del fu Sigerii Porcelli – che doveva essere un cugino o almeno un parente di Guido.
2) Il secondo dei pezzi terra aveva anch’esso casa, orto e pertinenze e un capo nella via pubblica, l’altro capo nella terra di Giovanni “Nigothantis”, un lato nella “terra e domo Gomite”, e l’altro lato nella terra e casa di Guido Pancia.
3) il terzo pezzo di terra, sempre con casa, torre e pertinenze, era confinato con un capo nella via pubblica, l’altro nella terra e case degli eredi di “domini Henrici de Stateriis” (Enrico delle Stadere), un lato nella terra e casa del conte Neri di Donoratico “sive ipsi Guidonis” (ovvero lo stesso Guido) che occupava anche l’altro lato di confine.
Appaiono tutte belle case e torri attaccate insieme e dovevano formare un vasto possesso di famiglia.
Nella carta gli immobili vennero messi da Guido e dal notaio nelle mani di Berta in “vacuam corporalem et tranquillam et disbrigata possessionem”.
Testimoni furono Cello del fu Giovanni caciaiolo della cappella di San Sisto, il notaio Giovanni Maschione del fu Michele, Coscio “sutore” (ciabattino) figlio di Arnone della cappella di Sant’Ambrogio.
Sempre per liberalità verso le donne di casa, Guido Pancia fece una seconda donazione, tramite il figlio Giovanni che la ricevette per Tora e Betta, figlie del fu Andrea Pancia e della fu Teccia, sue cugine e orfane.
Si trattava di 50 lire della dote di Teccia e di 100 lire comprese nel suo strumento dotale a suo tempo rogato dal notaio Berlingerio di Napoleone.
La carta non fornisce altri dettagli anche perché in questa parte è stinta e bucata.
Segue quindi la donazione di 8 su 24 carati delle tre terre sopra citate e le solite formalità di legge.
Il notaio rogatario finale fu Lippo del fu maestro “Bartholomei Fizici” (“fisico, ovvero medico, come si diceva allora), che riprese gli atti del notaio Oliviero Maschione.

Paola Ircani Menichini, 4 dicembre 2020.
Tutti i diritti riservati



La chiesa di Santa Maria dei Galletti sul Lungarno Pacinotti nell’iscrizione in alto sotto il frontone circolare ricorda le antiche cappelle nella zona:

D.O.M. / Auspice Deipara / SS. Clem. Marg. et Martino / paroecie patronis
(a Dio l’Ottimo e il Massimo, sotto la protezione della Madre di Dio [dedicata] ai Santi Clemente, Margherita e Martino, patroni della parrocchia).