Una lettera di Caterina Vespucci
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Una lettera di
Caterina Vespucci


Caterina dei Benci fece parte di una influente famiglia fiorentina del Quattrocento, essendo figlia di Giovanni, principale collaboratore della banca di Cosimo de’ Medici. La sua storia però dipese da quella del marito Piero Vespucci, primo figlio maschio di Giuliano di Lapo, nato nel 1432 a Firenze. Avviato alla carriera mercantile e dotato di coraggio, nel febbraio del 1463, Piero ottenne l’incarico di capitano di una delle galere fiorentine dirette in Oriente. Nei primi anni Cinquanta si sposò “con la giovanissima Caterina e da lei ebbe tre figlie – Bice, Ginevra e Marietta – e un figlio, Marco” (M. Lodone nel Dizionario Biografico degli Italiani, 2020). Conseguì poi una brillante e movimentata carriera politica, con esaltanti successi e crudeli delusioni.

“Nel 1472 fu inviato a Piombino come intermediario, per convincere Iacopo III Appiani (con cui aveva ottimi rapporti) a non interferire nella guerra lampo con cui Lorenzo il Magnifico costrinse Volterra alla resa.
Nel marzo del 1474 prese servizio come podestà di Milano, incarico che interruppe nel novembre dello stesso anno per recarsi a Bologna, dove tenne la podesteria fino al 1476”.
Anno sfortunato, quest’ultimo, perché Piero e Caterina videro morire di tisi a soli 23 anni Simonetta Cattaneo, moglie del figlio Marco, la bellissima “Venere” del Botticelli e, pare, amante di Giuliano de’ Medici.
Nell’aprile 1478, a seguito della congiura dei Pazzi moriva lo stesso Giuliano. Piero Vespucci, per aver incautamente aiutato un cospiratore a fuggire, cadde in disgrazia presso Lorenzo il Magnifico. Fu condannato al carcere perpetuo, ma, per l‘intervento del duca di Calabria, venne liberato nel 1480, condannato all’esilio e poi condonato del tutto. Tra la fine del 1480 e l’inizio del 1481, volendo allontanarsi da Firenze, prese servizio come capitano a Lugano, allora sotto il vasto ducato di Milano e Ludovico il Moro. Qui si fece molti nemici tra le fazioni guelfe e ghibelline tra loro combattenti, le quali, tuttavia, si congiunsero per accusarlo “di corruzione e abuso di potere”. Fu allora che la moglie Caterina si prodigò in suo favore, scrivendo ai potenti italiani e i loro amici, e sembra, con il disappunto di alcuni cortigiani del Magnifico, dispiaciuti della sua intromissione.

A lei e a questo periodo appartiene questa lettera contenuta in un registro dell’Archivio di Stato di Firenze.



Il destinatario è un “messer Iacopo” senza cognome, che dovrebbe essere Iacopo IV Appiani signore di Piombino, dove Piero aveva condotto molti affari. Sua moglie, anch’essa ricordata senza nome, era Vittoria Todeschini Piccolomini d’Aragona.
La lettera non ha data, ma riporta il luogo Lugano e l’argomento indica il 1482 o 1483, quando fu in forse il rinnovo dell’incarico di capitano, poi confermato.
La trascriviamo, non mancando di notare l’insistenza di Caterina che aveva lasciato gli agi di Firenze (“fora di caxa mia e de le cosse mie”) per seguire il marito:

“Meser Iacobo mio caro yo non posso fare chi non mi doga [doglia = lamenti[] con vuy d’aver perso l’officio da Millano che ne yto utile e l’onore de la qual cossa mi trovo tanto mal contenta e meza disperata che ogni dì mi pareva conto de venire costì e uscire di questa valle per venire a stare fra le persone da bene; ò veduto miser Piero po(i) che se partì di costì, è stato amalato nel leto paregi dì [= nel letto, parecchi giorni]; e non n’è stato se no(n) gran menanchonia [= malinconia] e dolore à auto di questo avendo auto la electione del officio la quale me mandò a Firenze che fu publico a ogniuno e maxime a soy amici; hora piacendo al signior Ludovicho [= il Moro, duca di Milano] che coci [= così] sia, deba piacere anchora a noy, e conosciamo essere la sua signoria di qualità di potercene dare un altro d’utile e d’honore; misere Piero piacerebe quando a sua signoria gli piacesse l’officio di Piacenza o di Cremona; quello di Pavia luy non lo vorebe per rispeto de lo studio che non vi si po’ fare officio e dice essere periculoso, e però, misere Iacobo mio, y vi prego per quanto amore ci portate, voyati essere con il signior Ludovicho e racomandarcigli voya avere compassione di noy poveri forestieri in queste parte essendo conduta qua deleta [= diletta?] che sono per stare apresso a luy; non vorei andare tapinando più fora de queste parte che ho paura che s’el signior Ludovicho abandonasse miser Piero, non andasse a trovare il suo signior duca il quale lo cavò di tanti affan(n)i, soy cierta non li lassarebe manchare in quele parte qualche bono officio, e però di novo vi prego che per lo amore di Dio e amore vuy portati a vostra donna e per quelo amore portati a mio fratello Franciescho Bengi, vi doya incresseri [=increscere] di mi, sua cara sorela, trovandomi fora di caxa mia e de le cosse mie, vogliati fare ognia cossa con il signior Ludovicho e con vostri amici abiamo uno di questi duy offici sia qual voya saremo contenti.
Miser Piero se partì da qui venerdì e andò a trovare il signior Roberto per clarilo [= chiarirgli] che nessun modo non vole stare qui e gli à servito in modo al signiore che la sua signoria, ce lo vorebe pura affermare, e però vi prego, miser Iacobo mio caro, a ogni modo ci voyati trare da qui con più utile e honore che si po’, che sapiti quanto yo vore pregay quando fustini qui.
Questo capitanio ha uno gran torto, sendo stato questi duy anni farci questa villania, avendo auto bona parte, o sia con Dio patienzia, doyamo avere a ognia modo e non doyamo se no(n) quello che vorà il signior Ludovicho e vuy altri nostri amici; quanto speranza io in cotesta terra ho in vuy e in elo mio caro cugnado ambassadore al quale y ò scrito una bona littera ci voya aiutare con il signior Ludovicho fargli avere duo de’ quali duy offici diti di sopra e somi racomandata a luy quanto ho saputo, e in voy duy sta la mia fede e la mia speranza, e son certa che ‘l signior Ludovicho farà ognia cossa per lo ambasatore come voy non v’increscha durare ognia faticha che questa cossa abbia bona fine el tempo che viene a li offici; se veno in questo tempo non v’increscha solicitare e perdonatime se anche dico cossa nessuna vi dispiacesse e habiatime per escuxata che sono meza fora di mi, in fine a tanto non so quelo abia a essere di noy, racomandomi a voy e racomandatime a vostra donna che soy tutta vostra e sua. Non altro per hora, Cristo di mal vi guarda e conserva in felice stato como voy desiderati.
Data Lugani die XXVIII octubr.
Vostra Catherina Vespucia”.

Piero Vespucci alla fine del 1484 fu assegnato alla sede di Alessandria, dove, come scrisse a Ludovico il Moro il 7 gennaio 1485, trovò “homeni dissoluti et malcorreti quanto dir si possa”. Tentò di reprimere i disordini con la forza. Così “nella notte tra il 10 e l’11 maggio 1485”, per colpire i ghibellini, “fece irruzione nella casa del facinoroso Carrante Villavecchia.
L’esecuzione sommaria di quest’ultimo, che Vespucci impiccò con le proprie mani, provocò l’immediata ritorsione dei familiari e amici della vittima, che la mattina seguente assalirono il palazzo del podestà e impiccarono Vespucci a una ringhiera, infierendo poi sul suo cadavere” (Ladona).

Paola Ircani Menichini, 6 novembre 2020.
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